Terapia breve e cultura: vi sono influenze sull’esito?

Terapia breve e cultura, davvero questa influisce sull’esito del percorso? La Terapia Breve centrata sulla Soluzione non appartiene a un ambiente culturale specifico, infatti sta trovando terreno fertile in ambienti culturalmente diversi.

Inoltre, ha deliberatamente escluso una teoria psicologica e non è che un povero veicolo dell’imperialismo culturale, richiedendo ai pazienti di adattarsi al punto di vista del terapeuta piuttosto che il contrario.

Terapia Breve e cultura, è il paziente che decide il contenuto

La domanda iniziale, “Quali sono le migliori speranze che potresti riporre nel nostro lavoro assieme?” è una formula che viene accettata universalmente.

La risposta a questa e altre domande può giungere solamente dal paziente, è lui che decide il contenuto della seduta, anche se il terapeuta, mediante le domande che porrà, cercherà di dare una direzione alla conversazione.

Un esempio: Il caso di Eva e di suo figlio Alberto

Eva e suo figlio Alberto erano stati indirizzati in terapia, separatamente, dai servizi per la salute mentale e per l’infanzia.

Eva era quasi giunta alla fine di una degenza obbligatoria di 28 giorni presso un ospedale psichiatrico in seguito all’aggressione di suo figlio: una notte aveva cercato di strangolarlo. In quel periodo era psicotica e lo era rimasta per diversi giorni.

La donna non parlava italiano e lavorava come domestica in un’ambasciata africana. Alberto, che aveva 14 anni, frequentava la scuola e parlava un italiano perfetto, tranne che durante la seduta. In quella circostanza non aveva proferito che un cordiale saluto e un arrivederci di commiato.

La conversazione era stata mediata da un interprete che aveva pensato che le domande del terapeuta -in particolare la Miracle Question (leggi un articolo di approfondimento) – fossero fatte appositamente per il Paese del paziente, trovandole fantastiche.

Gran parte della sessione era stata svolta mediante un disegno su una lavagna a fogli, nel disegno una montagna con “ospedale” alla base e le migliori speranze di Eva per una “buona salute” all’apice. Una scala illustrava nel dettaglio i risultati ottenuti finora e i successivi piccoli segni di progresso.

All’inizio della seconda sessione in cui Eva aveva riferito molti cambiamenti positivi, il terapeuta aveva capito la funzionalità del domandare “che altro?” Questa domanda aveva fatto scaturire grande ilarità e una notevole capacità di risposta.

terapia breve e cultura

Alberto, che aveva 14 anni, frequentava la scuola e parlava un italiano perfetto, tranne che durante la seduta

Non era andata così per Alberto. Alla terza seduta, per lo più una lunga serie di “cos’altro”, Eva stava bene. La donna si era stabilita in un nuovo alloggio e, sebbene Alberto fosse ancora in affidamento, era a casa tutti i giorni e non erano state segnalazioni preoccupanti. Eva era rimasta stupita.

Stentava a credere che tutto fosse gratuito e che lei e suo figlio fossero stati curati così bene. Aveva perso il lavoro all’ambasciata, ma l’avevano comunque aiutata a pagare il suo nuovo appartamento. Non aveva idea del perché “avesse perso la testa”, ma aveva sperimentato i segnali di quanto poi era accaduto.

Ora sapeva dove tali segnali potessero portare e che l’aiuto era disponibile nell’immediato. Era certa che quel che era successo non sarebbe accaduto mai più.

Una volta trovata la sua strada, Eva nel suo follow-up di quattro anni (l’interprete era diventata un’amica di famiglia e per coincidenza aveva incontrato il terapeuta quattro anni dopo) aveva mostrato di essersi sistemata, parlava italiano, aveva un lavoro e non aveva avuto altri problemi psichiatrici.

Alberto era tornato a casa in modo definitivo, stava finendo la scuola e aveva programmato di andare all’università.

In nessun momento del lavoro terapeutico si era cercato di capire cosa fosse andato storto o di spiegarlo in termini culturali o di altro tipo. Il terapeuta aveva semplicemente dato fiducia a Eva come avrebbe fatto con qualsiasi altro paziente.

Aveva semplicemente dato per supposto che fosse solo Eva la persona più adatta a risolvere i suoi problemi e ad andare avanti con la sua vita. Si era fidato del fatto che la sua risposta, anche se li per li non era riuscita a capirla, le avrebbe dato tutte le informazioni utili per vivere in modo accettabile, dimostrando che Terapia breve e cultura non sono intrecciate in modo indissolubile e, al contrario, che questa non influisce sul percorso terapeutico. 

Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Esperto di Terapie Brevi,
Terapia a Seduta Singola
e Ipnosi

 

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