Difficoltà di apprendimento

Anche per i pazienti con difficoltà di apprendimento il linguaggio del terapeuta deve essere modulato esattamente come nel caso in cui si lavori con i bambini (per maggiori approfondimenti si rimanda alla lettura di Bliss e Edmonds 2008).

Tendenzialmente i terapeuti apprezzano l’eloquenza, ma in realtà applaudono alla propria. Forse sarebbe più utile vedere i nostri pazienti come se avessero un’eloquenza o delle forme di linguaggio diverse e dovremmo fare in modo che il nostro compito sia quello di parlare un linguaggio quanto più possibile vicino a quello del paziente.

Parlare un linguaggio comprensibile al paziente

Questo può essere davvero difficile, specialmente quando il terapeuta non ha familiarità col modo di intendere e volere del paziente, tuttavia, le prove e gli errori sono ottimi indicatori verso la giusta direzione. Un suggerimento sempre utile per comunicare con le persone con difficoltà di apprendimento è quella di essere pienamente consapevoli delle loro risposte a quelle che potranno essere le domande mirate.

I concetti astratti possono essere difficili per alcuni pazienti, ma questo non significa che non si debba comunque fare un tentativo. Non dobbiamo dare per scontato che i nostri pazienti abbiano dei limiti, altrimenti arriviamo a imporli noi stessi.

Come accade con i bambini più piccoli (qui trovi ulteriori approfondimenti a riguardo), una domanda del tipo “quali sono le migliori speranze che hai con questa terapia?” è un concetto troppo astratto per alcuni, è quindi necessario trovare un percorso più concreto, come iniziare dal problema.

La cosa più probabile, infatti, è che delle difficoltà importanti, per lo più percepite da altri, abbiano condotto il paziente in terapia. È anche probabile che il concetto di “essere più felici” mostri le buone intenzioni del terapeuta.

Il caso di Margherita

Per avere una più chiara idea di quanto asserito, prendiamo in esame il caso di Margherita, una donna di 50 anni affetta dalla sindrome di Down. Margherita aveva vissuto la maggior parte della sua vita in un grande ospedale, inizialmente una struttura per “cretini”, poi per “subnormali” e infine per “disabili nell’ambito dell’apprendimento”.

L’ospedale era poi stato demolito e Margherita era stata trasferita in un monolocale di sostegno in una proprietà malandata. Non era contenta. Aveva finito per litigare con tutti gli altri residenti (che erano anch’essi stati trasferiti dall’ospedale), si rifiutava di collaborare con i professionisti e veniva spesso aggredita nella sua proprietà.

La richiesta di una breve terapia era stato un enorme atto di fede da parte dell’infermiera della comunità che aveva anche insegnato a Margherita come raggiungere la clinica.

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Per tre anni il terapeuta aveva offerto a Margherita la tazza di tè più calda e più grande della clinica

Alla seduta di terapia era arrivata carica di borse e si era rifiutata di parlare fino a quando non aveva avuto in mano una tazza di tè. Quando lo aveva finito era andata via.

Margherita aveva partecipato alle sedute terapeutiche una volta ogni tre mesi per i successivi tre anni.

Fin dalla prima seduta il suo comportamento era cambiato.

La donna aveva iniziato a essere più calma, aveva cominciato a prendersi cura di se stessa, a essere più amichevole con i vicini, a stabilire un contatto professionale e a diventare una sorta di personaggio della tenuta.

Fortunatamente, il terapeuta focalizzato sulla soluzione non aveva cercato spiegazioni perché questo avrebbe rappresentato una sfida anche per i più creativi.

I risultati ottenuti con Margherita

Per tre anni il terapeuta aveva offerto a Margherita la tazza di tè più calda e più grande della clinica e le aveva chiesto di descrivere il suo percorso di terapia passo dopo passo. A ogni visita raccontava a bassa voce i suoi viaggi “omerici”.

Se aveva incontrato la sorella di recente, permetteva di farle qualche domanda a riguardo, di ciò che le piaceva delle sue visite, solitamente questo portava alla descrizione del pranzo domenicale.

A parte questo, una volta all’anno, consentiva una o due domande sulla sua vacanza annuale nella solita località. Ogni domanda inerente al futuro, invece, aveva spinto Margherita verso sentimenti di rabbia e panico che richiedevano una grande quantità di rassicurazioni.

Una volta che la tazza di tè era vuota, Margherita frugava nelle sue numerose borse per tirare fuori un diario con la copertina rossa brillante. Lei e il terapeuta contavano 13 settimane e Margherita, poi, scriveva il suo nome, nel giorno scelto, così come le aveva insegnato l’infermiera della comunità.

Flavio Cannistrà
Psicologo, Psicoterapeuta
Esperto di Terapie Brevi,
Terapia a Seduta Singola
e Ipnosi

 

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Bibliografia

Bliss, E. V. and Edmonds, G. (2008) A Self-determineted Future with Asperger’s Syndrome: Solution Focused Approaches. London: Jessica Kingsley

 

 

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